Come rinnovare la pastorale? Come leggere i nostri giorni e come rispondere alle sfide poste dalla nostra storia? All’inizio del nuovo anno, venerdì 11 gennaio l’incontro di aggiornamento del clero si è pensato come un momento di discernimento attraverso un confronto guidato dal direttore della Caritas diocesana. In clima di famiglia, senza relatore esterno, per essere più aderenti alla nostra vita, come già per la Catechesi e per la Liturgia. Il primo punto è ritrovato nella lettura della nostra storia. È la scelta di sentirci, dopo il Concilio, partecipi alle gioie e ai dolori di tutti, di rapportarci al mondo, non per giudicare, ma per capire e per amare i nostri compagni di viaggio. Partecipando dall’interno, senza presunzione e senza facili ricette, ci chiediamo: cosa caratterizza la nostra storia? Certo, la crisi economica ma, più profondamente, siamo in presenza di una crisi antropologica per la difficoltà nella modernità a far crescere uomini capaci di solidarietà, perché gli uomini moderni sono uomini senza Padre, quindi in preda a paure che spingono all’immunitas e non alla communitas. Eppure la domanda di “un padre” non manca, e non è generica. Viene formulata come richiesta di paternità vera, diversa da quelle usuali. Rousseau scrive: «Per garantire legami santi, ci vuole un padre, ma che sia un padre con la P maiuscola». E allora – secondo punto – diventa importante accompagnare facendo percepire questo Padre, riscoprendo il cuore della pastorale e dell’educazione nella capacità di far crescere amando e liberando. Mostrando vicinanza e distanza al tempo stesso. La vicinanza come partecipazione e attenzione: la proposta è quella di “sentinelle” che si accorgano di chi sta male e chiedono alla comunità di farsi presente. La distanza come dislocazione rispetto alle logiche dominanti, per avere la capacità di usare linguaggi (come quelli messi al centro dell’Avvento e della Quaresima di carità) capaci di dire la cura per l’altro e di porre segni alternativi con cui “restare umani” (le nostre opere caritative hanno, da questo punto di vista, la possibilità di dare, accanto all’aiuto, un senso per la vita e quindi di diventare luoghi educativi). Terzo punto: tutto questo, questa cura, però si perde se l’aiuto diventa veloce e disordinata assistenza. Ecco allora l’esigenza di riordinare la rete dell’aiuto e di ripensare gli equilibri della pastorale. L’aiuto immediato, proprio del Centro di aiuto, va certo dato, ma non basta. Occorrono anche ascolto e presa in carico. Per questo il Centro di ascolto in ogni vicariato è stato voluto per accompagnare con il discernimento e la progettualità: certo non è facile, ma siamo agli inizi e si sta chiedendo una verifica perché migliori la qualità dell’intervento. Perché l’ascolto diventi capacità di presa in carico, orientamento, costruzione di una rete di solidarietà che faccia crescere le persone e coinvolga la comunità. Soprattutto, va ripensato l’equilibrio della pastorale. Sui Centri di aiuto va privilegiata la visita, che aiuta a mostrare e a percepire la Chiesa – non come agenzia sociale – ma come padre, madre, sorella riflesso dell’amore del Padre … e quindi aiuta a cogliere la chiamata alla fraternità e a riscoprire un Padre che tutti ci attende e ci vuole più fratelli e meno estranei gli uni agli altri. Su questa base i rapporti della Chiesa con il territorio e le sue istituzioni saranno improntati a discernimento evangelico: si potrà collaborare con tutti per il bene comune, ma si resterà distanti da logiche di dominio e da strumentalizzazioni. Resta fondamentale per questo il criterio del Concilio e del Sinodo: «Come Cristo, così la Chiesa»: non abbiamo da conquistare spazi o consensi ma da testimoniare che la via della povertà salva e rende autentico, credibile, l’amore.
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