“Un pastore che odora di pecore” – ha detto un giovane alla fine dell’incontro diocesano con Mons. Montenegro, arcivescovo di Agrigento, sull’immigrazione come segno dei tempi che si è tenuto il 5 aprile alla Domus S. Petri di Modica. Ma è stato anche “una chiamata alla responsabilità, in modo mite e forte al tempo stesso, capace di andare dritto al cuore” – ha sottolineato una mamma che insieme al marito vive l’esperienza dell’affidamento di “figli generati dall’amore”. Cuore e mente sono stati interpellati grazie ad un approccio evangelico con cui Don Franco ha saputo mettere insieme storie concrete, memoria, riflessione e orizzonti prospettici. Gli immigrati, infatti, sono in primo luogo (e sempre!) persone con la loro storia. E dovremmo ricordarci che anche noi siamo stati immigrati (don Franco ha citato una relazione dell’ispettorato Usa per l’immigrazione del 1912 che descriveva gli italiani come oggi noi descriviamo gli immigrati), ma anche avere la consapevolezza che gli immigrati di oggi sono frutto di un mondo ingiusto, di modelli di sviluppo sbagliati. E però lo dimentichiamo, come dimentichiamo che i poveri sono la maggioranza del mondo mentre noi – i borghesi dell’Occidente – siamo una minoranza. Dovremmo poi chiederci cosa c’è alla radice del nostro fastidio verso gli immigrati: atleti e cantanti li vogliamo anche se di colore diverso, quello che non vogliamo accogliere è la povertà! Certo non tutti pensano e operano così … Lampedusa, l’isola degli sbarchi, è simbolo della nostra ambivalenza: la sua gente (in certi momenti 5000 abitanti dell’isola a fronte di 7000 immigrati) è stata – come dice il nome dell’isola – “faro” per la sua capacità di accogliere, ma la modalità con cui si sono gestite le cose la fanno diventare “scoglio”, pietra di scandalo che ricorda come gli immigrati sono poveri che generiamo con il nostro mondo ingiusto e che però non vogliamo riconoscere come parte di noi stessi. La conversione inizia se ce ne rendiamo conto.
E diventa cammino verso una meta che ci immette nella pienezza dell’umanità: che richiede – ha sottolineato Don Franco – l’integrazione, e non la semplice tolleranza! Passando per uno sguardo bioculare: uno, per accogliere, condividere, far sedere a mensa; l’altro, per chiamare le istituzioni alla loro responsabilità, per non lasciare in pace chi ha il dovere di costruire giustizia e legalità vera. Arrivando a renderci conto, con Ernesto Balducci (un grande testimone del secolo scorso) che non siamo la “misura” del mondo. Accogliendo sogni e valori che mettono – come profetizza Isaia – “insieme l’Assiro e l’Egiziano e rendono Israele testimone dell’agire grande di Dio!” Arrivando a renderci conto con Davide Maria Turoldo (altro testimone del secondo scorso) che una fede che non umanizza il mondo diventa inutile … Alla fine l’invito è stato quello di fare una verifica su chi siamo veramente. In negativo potremmo dire: “dimmi chi respingi, e ti dirò chi sei!”. In positivo, don Franco ha invitato a fare passi concreti e a costruire una “strada larga” dove tutto il gregge possa riposare. Chiedendo a Dio la “mantellina larga” del pastore che si carica di tutte le pecore e in particolare di quelle più deboli.
Come ha detto nel suo saluto il vicario generale, don Angelo Giurdanella, l’incontro non può essere una parentesi ma deve pensarsi come un momento del cammino della nostra Chiesa che vuole sempre più, secondo l’invito del nostro Vescovo, accogliere e testimoniare la misericordia di Dio. E il riferimento al pastore dalla “mantellina larga” alla vigilia della Visita pastorale di Mons. Staglianò nelle parrocchie fa pensare a come la verifica sarà anche la capacità di accoglienza che avremo verso tutti e, in particolare, verso il forestiero attraverso cui è Dio che continua a visitarci.