Mons. Staglianò al simposio su S. Anselmo a Roma

La ricorrenza del IX centenario della morte di S. Anselmo (nato ad Aosta nel 1033 e morto a Canterbury nel 1109), è stata e continua ad essere celebrata attraverso molte iniziative culturali, in Italia come all’estero, al fine di ricordare e meglio approfondire il pensiero di questo grande teologo e pastore cristiano. Per la rilevanza e la qualità dei promotori, dei relatori e dei partecipanti è da segnalare il simposio organizzato dal Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma il 21 e 22 aprile scorsi, al quale ha partecipato, in veste di conferenziere, il nostro vescovo Mons. Antonio Staglianò.  Acuto e fine studioso di S. Anselmo (ricordiamo che è autore de: La mente umana alla prova di Dio. Filosofia e teologia nel dibattito contemporaneo sull’argomento di Anselmo d’Aosta, EDB, Bologna 1996, testo di imprescindibile riferimento nel panorama della bibliografia specializzata sugli studi anselmiani), ha presentato al vasto e competente uditorio una lezione su: Preghiera e argomentazione filosofica nel Proslogion di Anselmo d’Aosta (disponibile sul nostro sito www.diocesinoto.it). Il Proslogion, composto tra il 1077 e il 1078, l’opera probabilmente più conosciuta del santo arcivescovo di Canterbury (insieme al Monologion e al Cur Deus homo), rappresenta indubbiamente uno dei testi più significativi della filosofia e della teologia medievale ma, più in generale, rimane una pietra miliare nella storia del pensiero occidentale. Deve la sua fama alla celebre prova dell’esistenza di Dio, nota come argomento a priori o – dopo Kant, per quanto impropriamente – argomento ontologico. Senza entrare nei dettagli della dimostrazione, impresa ardua per lo spazio ristretto qui a disposizione, onde evitare di abbassare l’altezza speculativa dell’argomento anselmiano (che ha comunque suscitato da quando è stato concepito ai nostri giorni un inarrestabile flusso di dibattiti, prevalentemente filosofici, sulla pertinenza logica del medesimo), diciamo sinteticamente che, per detta prova, l’esistenza di Dio risulta immediatamente chiara ed evidente alla mente solo grazie all’esercizio cor-retto della ragione che, al termine della sua riflessione, ammetterà tale esistenza addirittura come necessaria, non semplicemente come auspicabile o – come qualcuno per contro vorrebbe leggervi – il prodotto finito di una proiezione ideale. Dio viene concepito da Anselmo (in quella fase di esercizio della ragione che presuppone sì la fede ma non la chiama anzitempo in campo, quasi “strumentalizzandola” al fine di credere) come Colui del quale non si può pensare niente di più grande (id quo maius cogitari nequit). In breve: “Ciò di cui non è possibile concepire nulla di maggiore” (=Dio) non può esistere soltanto nell’intelletto, come una pura idea, ma deve esistere anche nella realtà. Infatti se ciò di cui nulla si può pensare di più grande esistesse solo nella mente, si potrebbe sempre concepire un altro essere esistente oltre che nella mente anche nella realtà maggiore del primo pensato. Ciò significa che id quo maius cogitari nequit sarebbe in effetti ciò di cui si può pensare il maggiore, il che è evidentemente contraddittorio con la premessa della perfezione divina. Per cui Dio esiste necessariamente non solo nell’intelletto del credente ma anche nella realtà esterna a tale pensiero. L’esito felice di questa “scoperta” – che per alcuni nasconderebbe tuttavia un inghippo logico – non deriva allora da un acritico e cieco fideismo, ma dal movimento intelligente della ragione che si scoprirà – anch’essa – già “capace” di Dio. È qui che Anselmo fa emergere – ed è l’aspetto che più ci interessa – lo stile e il metodo del grande pensatore quale è stato. Riprendendo e riformulando il programma agostiniano del credo ut intelligam, Anselmo – se così possiamo esprimerci – ha già risolto il dilemma moderno della impacciata, per non dire impossibile, conciliazione delle istanze della fides e di quelle della ratio. Secondo questa armonica visione sembra anzi non possano darsi da sole senza perdere ciascuna qualcosa della propria natura. Certo – come qualche critico ha sostenuto – questo “nome” di Dio potrebbe sembrare arido ed infelice: nessun rimando apparente al Dio “Amore”, nessuna tensione “emotiva” verso la sublimazione agapica dell’essere. Anche gli altri due nomi divini (summum omnium e maius quam cogitari possit), che compaiono pure nel Proslogion, sembrano subire la stessa resistenza affettiva. Ma il fine dell’argomento e dello scritto non è anzitutto di natura fervoristico-devozionale. Esso – come ha sottolineato Mons. Staglianò nella sua conferenza – non ha intenzione di “portare il non credente alla fede, ma all’intelligenza”, senza che questo itinerario impoverisca ma, anzi, avvalori l’aspetto più autenticamente affettivo della speranza certa della ricerca e della gioia gustata a meta raggiunta. Nel metodo utilizzato nella ricerca teologica, Anselmo ha fatto pertanto dell’uso di ragione non un elemento secondario o di supporto (ancillare), ma un vero e proprio criterio induttivo nell’intelligenza di ciò che già si crede, si spera, si ama. «Anselmo crede, ma vuole capire ciò che crede. Assertore di un profondo legame tra fede e intelligenza, egli apre il dialogo con il “non credente” e con l’infedele, sicuro che la mente umana dischiude un itinerario di intelligenza praticabile a chiunque usi la ragione in modo onesto. Perciò egli non teme di riflettere razionalmente pregando il suo Dio: non ha timore di approntare una prova razionale dell’esistenza di Dio nell’invocazione della grazia che deve illuminarlo nel cammino della sua scoperta. La fede viene al pensiero. Il pensiero non disdegna di avanzare nella fede stessa» (A. Staglianò). In Anselmo perciò è già attuato il dialogo tra fede e ragione, tra rivelazione divina e logica umana, dialogo che ultimamente è capacità della fede di “cogliere la sua coerenza a priori”. La ricomposta unità e identità tra il Dio creduto per fede e il Dio trovato per via razionale, è comunque preceduta e seguita da una preghiera – ed è qui l’altro punto focale della relazione di Mons. Staglianò – che manifesta da una parte il desiderio di cercare e dall’altra l’abbandono alla gioia di aver trovato ciò che l’intelligenza cercava. Ecco perché il Proslogion non è soltanto un’opera teologica o filosofica. La preghiera, in un orizzonte mistico ancora da rivalutare nella sua reale portata, è il punto di forza sul cui perno si misura la stessa capacità della ragione di attendere al suo impegno e al suo dovere. Nel Proslogion pertanto – come ha osservato il vescovo – il criterio “sola ratione” non indica il suo isolamento nell’autosufficienza paga di sé, ma si inserisce in una prospettiva globale dove tutte le componenti umane, che partano dal desiderio della conoscenza e della ricerca della verità per giungere all’esperienza della contemplazione, trovano il loro autentico compimento. «Nessuno potrà così accusare Anselmo di “criptomania” – conclude Mons. Staglianò – rispetto alla sua fede, con l’obiezione che la sua ricerca, volutamente razionale, presuppone invece metodicamente la fede, estromessa solo nelle dichiarazioni verbali. […] La preghiera di ringraziamento dopo il felice esito della prova stabilisce l’inesorabilità dell’intelligenza anche se non si volesse credere: “Ti ringrazio, Signore buono, ti ringrazio perché ciò che prima ho creduto per tuo dono, ora per la tua illuminazione lo comprendo in modo tale che, se non volessi credere che tu esisti, non potrei non comprenderlo”(Anselmo)».