Incontri con Mons. Montenegro sulla Chiesa casa e scuola di comunione

Venerdì 29 gennaio è stata una giornata intensa e bella per la nostra comunità diocesana. Al mattino per i preti, la sera per i laici (eravamo tantissimi) si sono tenuti i due incontri con Mons. Montenegro sulla “Chiesa come casa e scuola della comunione” e sulla maturazione di una fede adulta. Prima delle parole, ha colpito il tono di don Franco, pacato e mite, ma anche chiaro sulle esigenze evangeliche, soprattutto con il sapore dell’autenticità, senza alcuna retorica. E, come lo stesso Arcivescovo di Agrigento ha evidenziato, c’era già un primo segno che accompagnava le parole, qualcosa che sempre deve esserci, un’apertura (“un vetro rotto” ha detto con un’immagine) senza il quale Chiesa e famiglia diventano rifugio e non base di slancio evangelico: c’era don Dionisio Rodriquez a tenere vivo il legame con la Chiesa dell’Aquila che si trova ad affrontare una situazione drammatica (diversamente da come si vuol far credere). C’è, infatti, tutto da ricostruire. Non solo le case (che non ci sono per tutti e da cui restano escluse soprattutto le persone sole e anziane, ancora negli alberghi), ma anche economia e tessuto sociale. Un’apertura per cogliere, come ha chiarito don Franco, ciò che il Signore ci ha donato già – la comunione e i poveri – verso cui (eventualmente) siamo in ritardo di duemila anni! Ridirci questa centralità dei doni grandi di Dio, condensati nell’eucaristia e nella sua prosecuzione nella vita, significa avvertire la chiamata ad accelerare il passo! Con una precisazione sostanziale sulla comunione: la comunione che nasce dalla Trinità, che ci mette insieme nelle differenze “non sommate ma moltiplicate” e che ci colloca “in mezzo” come servi, fa la “differenza” rispetto ai club, alla semplice amicizia, alla filantropia. E permette di offrire al mondo il Vangelo! Per cui le unità pastorali (o comunione di comunità) non sono fatti pratici o ordini imponibili per decreto, ma un test di conversione a rapporti autentici tra i preti, ma anche tra preti e popolo di Dio, nella circolarità della corresponsabilità battesimale. Esse allora andranno maturate grazie a rapporti diversi dalle barriere che separano e creano recinti. Diventa importante per questo il riconoscimento del Signore nei poveri che non permette dubbi, come potrebbe accadere di fronte a un ostia per la quale – per riconoscervi Cristo – bisogna sapere se è consacrata o meno! E quando don Franco parlava di poveri, si sentiva il sapore dell’incontro con il Risorto che conserva le sue piaghe, quelle ferite che diventano – don Franco ha ripetutamente ripreso profeti come don Mazzolari o don Tonino Bello – “feritoie” e che, quindi, permettono di far festa vera anche in mezzo alle prove e senza escludere nessuno; “feritorie” che permettono di parlare veramente a tutti perché si parte dagli ultimi. “Amando il mondo, prendendolo a braccetto”- ha ancora ricordato Mons. Montenegro – senza quei pesanti ed unilaterali giudizi moralistici che spesso ci caratterizzano, senza pensarci come un esercito in guerra, ma sempre e soltanto come famiglia (traducendo ogni volta ciò che vale per la Chiesa per ogni ambito della vita). Con un rapporto vivo con Gesù, leggendo il vangelo mettendosi ora al posto di Gesù, ora dei suoi interlocutori, ora dello stesso Padre (come nella parabola del padre misericordioso)… Come lo stesso don Franco ha fatto nella tragedia di Favara in cui – ha spiegato – “mi sono chiesto dove si sarebbe messo Gesù…”. Ora la nostra Chiesa, le nostre comunità sono chiamate ad accogliere con altrettanta verità la testimonianza di Mons. Montenegro: con fatti concreti e atteggiamento penitenziale, come ha sottolineato nell’incontro con i preti il nostro Vescovo Mons. Staglianò. E come già nel Sinodo avevamo capito, quando lo Spirito ci aveva spinto a ritenere urgente «un serio e gioioso cammino penitenziale per togliere veli al volto di Cristo per chi, più o meno consapevolmente, lo cerca». 
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