Un lunghissimo applauso ha espresso il consenso delle centinaia di operatori pastorali che affollavano l’ampio Oratorio ‘San Domenico Savio’ di Rosolini per l’incontro unitario della diocesi di Noto sul tema “Amore sponsale che genera relazione: la profezia del Vangelo nella città degli uomini” alla fine della relazione di don Luigi Epicoco, parroco della parrocchia universitaria dell’Aquila e docente di filosofia. “L’amore è una scienza pratica – ha detto fin dall’inizio commentando il capitolo 13 della lettera ai Corinti – e San Paolo scrive per aiutare a viverlo, Occorre non confondere i discorsi sulle cose con le cose”.
E ha ricordato il rischio di allora come di oggi: avere carismi, doni, e viverli in modo autoreferenziale, viverli nella faziosità. Chiarendo che i carismi si “hanno”, la carità riguarda il modo di usarli: si diventa santi non per i doni che si hanno ma per come si esercita ciò che si ha.
Doni, ma anche situazioni che non si scelgono, come una malattia grave. Come si esercita (un dono, il rapporto con una situazione non scelta) e non tanto come si “sopporta”. Chiarendo che la croce – a differenza di come troppo spesso ancora si dice – non è sopportazione dei mali della vita, ma dono che va fino in fondo.
Ancora: la carità per essere vera deve essere sostanza e forma, senza separazione. Questo fa la qualità dell’amore, che trova la sua misura piena in Gesù Crocifisso, ovvero in Gesù che ama fino a dare la vita.
Ulteriore passaggio: cosa vuole dire l’invito di papa Francesco ad andare nelle periferie? Per don Epicoco significa ancora una volta un amore vero, un amore con cui non si mette al centro se stessi, un amore grazie al quale ci si fa “periferia” per lasciare che sia l’altro al centro. “Il faraone – ha continuato – da questo punto di vista è dentro di noi, mentre gli altri sono la nostra terra promessa. E Dio ha dato in mano a me il pane per il fratello, come io, che posso assolvere, ho però bisogno di una altro prete per essere assolto. Un tessuto di relazione, in cui abbiamo bisogno gli uni degli altri… questo è la Chiesa e questo resta anche al di là dei suoi limiti e delle sue contraddizioni”. Non secondarie le conseguenze. Prima della collaborazione ci vuole la comunione! E a questo punto è passato a quelle che ha chiamato le “istruzioni d’uso” per un amore così. In primo luogo la pazienza, diversa dalla tolleranza, che conserva un senso di superiorità: la pazienza come attenzione all’altro non riducendolo alle nostre aspettative.
In secondo luogo la vigilanza sull’invidia, non tanto sul sentirla, ma sull’acconsentire a questa passione triste per il bene degli altri, che facilmente si accompagna alla vanagloria, al dire continuamente “io ho fatto”. E quindi il rispetto, ovvero evitare lo sguardo di giudizio.
Ancora: “La vera carità non cerca il proprio interesse, non propaga il male con il pettegolezzo, tutto sopporta ovvero ama malgrado tutto; il resto non è amore ma imitazione del demonio”.
Dopo l’intensa relazione ci si è divisi in gruppi di confronto e sono emerse belle risonanze e intuizioni come l’esigenza di essere meno autoreferenziali tra le parrocchie, di accogliere le culture altre che sono in mezzo a noi, di stare più attenti allo sguardo, di curare il dettaglio (“La vera carità – aveva detto don Epicoco – non è astratta e generale, è sempre attenta a ognuno e cura il dettaglio”), a risvegliare attenzione in parrocchia e sperimentare forme di reti familiari come accaduto con il progetto della Caritas “Rifugiato a casa mia”.
Concludendo, il vescovo mons. Antonio Stagliano, dopo aver espresso il sentito grazie di tutti e l’impegno a riprendere non solo la relazione, ma anche le indicazioni del sussidio unitario della diocesi che dà molti suggerimenti per un amore vero, ha sottolineato come ognuno deve partire da se stesso, come bisogna essere attenti ad una carità che si riduce a strumentale uso del povero, come sia importante che ogni messa continui nella vita attraverso un impegno che sia di tutta la comunità perché nell’eucaristia si diventa corpo di Cristo.
Don Epicoco, da parte sua, aveva ricordato come l’amore resta: tutto passa, ma il motivo e il fine più profondo di quanto facciamo, se lo facciamo con amore, mai passerà.
Doni, ma anche situazioni che non si scelgono, come una malattia grave. Come si esercita (un dono, il rapporto con una situazione non scelta) e non tanto come si “sopporta”. Chiarendo che la croce – a differenza di come troppo spesso ancora si dice – non è sopportazione dei mali della vita, ma dono che va fino in fondo.
Ancora: la carità per essere vera deve essere sostanza e forma, senza separazione. Questo fa la qualità dell’amore, che trova la sua misura piena in Gesù Crocifisso, ovvero in Gesù che ama fino a dare la vita.
Ulteriore passaggio: cosa vuole dire l’invito di papa Francesco ad andare nelle periferie? Per don Epicoco significa ancora una volta un amore vero, un amore con cui non si mette al centro se stessi, un amore grazie al quale ci si fa “periferia” per lasciare che sia l’altro al centro. “Il faraone – ha continuato – da questo punto di vista è dentro di noi, mentre gli altri sono la nostra terra promessa. E Dio ha dato in mano a me il pane per il fratello, come io, che posso assolvere, ho però bisogno di una altro prete per essere assolto. Un tessuto di relazione, in cui abbiamo bisogno gli uni degli altri… questo è la Chiesa e questo resta anche al di là dei suoi limiti e delle sue contraddizioni”. Non secondarie le conseguenze. Prima della collaborazione ci vuole la comunione! E a questo punto è passato a quelle che ha chiamato le “istruzioni d’uso” per un amore così. In primo luogo la pazienza, diversa dalla tolleranza, che conserva un senso di superiorità: la pazienza come attenzione all’altro non riducendolo alle nostre aspettative.
In secondo luogo la vigilanza sull’invidia, non tanto sul sentirla, ma sull’acconsentire a questa passione triste per il bene degli altri, che facilmente si accompagna alla vanagloria, al dire continuamente “io ho fatto”. E quindi il rispetto, ovvero evitare lo sguardo di giudizio.
Ancora: “La vera carità non cerca il proprio interesse, non propaga il male con il pettegolezzo, tutto sopporta ovvero ama malgrado tutto; il resto non è amore ma imitazione del demonio”.
Dopo l’intensa relazione ci si è divisi in gruppi di confronto e sono emerse belle risonanze e intuizioni come l’esigenza di essere meno autoreferenziali tra le parrocchie, di accogliere le culture altre che sono in mezzo a noi, di stare più attenti allo sguardo, di curare il dettaglio (“La vera carità – aveva detto don Epicoco – non è astratta e generale, è sempre attenta a ognuno e cura il dettaglio”), a risvegliare attenzione in parrocchia e sperimentare forme di reti familiari come accaduto con il progetto della Caritas “Rifugiato a casa mia”.
Concludendo, il vescovo mons. Antonio Stagliano, dopo aver espresso il sentito grazie di tutti e l’impegno a riprendere non solo la relazione, ma anche le indicazioni del sussidio unitario della diocesi che dà molti suggerimenti per un amore vero, ha sottolineato come ognuno deve partire da se stesso, come bisogna essere attenti ad una carità che si riduce a strumentale uso del povero, come sia importante che ogni messa continui nella vita attraverso un impegno che sia di tutta la comunità perché nell’eucaristia si diventa corpo di Cristo.
Don Epicoco, da parte sua, aveva ricordato come l’amore resta: tutto passa, ma il motivo e il fine più profondo di quanto facciamo, se lo facciamo con amore, mai passerà.