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Comunità Incontro: XXV Anniversario di apertura del Centro di Noto “C. Paradiso”

Giorno 27 aprile ricorre il 25° Anniversario della fondazione del Centro “C. Paradiso” di Noto, della Comunità Incontro di D. Pierino Gelmini. Un appuntamento giubilare che segna una tappa importante nel cammino di testimonianza della Carità a favore di tanti giovani, cui è offerta l’opportunità di recuperare il senso della vita, che hanno smarrito e che li ha portati all’illusione di colmare i vuoti esistenziali ricorrendo all’alcool,  alle droghe, alle pasticche, alla ricerca di paradisi artificiali. Questo come conseguenza di una cultura del tutto, subito e senza impegno.
Un cammino iniziato grazie all’intuizione del Vescovo emerito mons. Salvatore Nicolosi che, sollecitato dalla morte per droga del giovane netino Corrado Paradiso, volle dare una risposta concreta ad un fenomeno che rapidamente assumeva proporzioni devastanti anche nel nostro territorio. Interpellò allo scopo don Pierino Gelmini, fondatore della Comunità Incontro, che già da anni portava avanti proficuamente l’esperienza in Italia e all’Estero, il quale accolse prontamente l’invito e diede vita al Centro di Noto, inviando subito dopo, nel gennaio 1986, i primi sette ragazzi: Luca Pettinicchio, primo responsabile, Marco Quacquarini, Domenico Faillace, Daniele Ghirardello, Francesco Caldeo, Marcello Massaro.
Durante questi anni, la Comunità è stata punto di riferimento per tante famiglie e giovani che vivevano il dramma della solitudine, della disperazione a motivo della droga; inoltre, essa ha rappresentato un chiaro messaggio di vita e di speranza, perché, come dice don Pierino, non ci sono persone irrecuperabili; solo l’amore permette di rinascere, di ripartire, di dare nuovo slancio alla vita. Attraverso la “Cristoterapia”, amore incarnato, don Pierino ha tracciato un percorso basato sul confronto, la condivisione, il lavoro e l’acquisizione del senso di responsabilità, che ha permesso a tanti giovani di dare una svolta decisiva alla loro vita e a riscoprire i valori della famiglia, della solidarietà, della partecipazione alla vita civile.
Anche le scuole, la associazioni, le parrocchie del territorio della Sicilia Sud Orientale hanno usufruito dei frutti del Centro, grazie alle testimonianze dei ragazzi recuperati e agli interventi dei Coordinatori che hanno collaborato a diffondere la cultura della vita e dell’impegno.
 Far memoria di tale evento non è semplice ricordo, ma un riconoscere quanto si è fatto per trovare l’energia per continuare a fare, possibilmente sempre di più e meglio, per augurare ai ragazzi del Centro di continuare a lottare perché se ce l’hanno fatta gli altri possono farcela anche loro e per manifestare a don Pierino, benefattore dell’umanità, gratitudine, affetto e ammirazione per il servizio che continua a svolgere con determinazione e amore, per dirgli di continuare senza stancarsi e di riprendersi al più presto perché i suoi figli dell’amore hanno bisogno del padre che li accompagni nel cammino.                                   

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Consacrazione altare Cuore Immacolato di Maria in Crocevie – Modica

Giorno 10 aprile il nostro Vescovo, Mons. Antonio Staglianò, ha consacrato il nuovo altare della parrocchia Cuore Immacolato di Maria in Crocevie a Modica in occasione della sua riapertura. Consacrare un altare è un gesto molto impegnativo e significativo. Significa che noi dobbiamo continuamente convertirci a quanto si celebra su quell’altare e a quanto da quell’altare è simboleggiato: il sacrificio di sé che Gesù ha fatto («Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per le persone a cui si vuol bene!»). Celebrando su questo altare noi siamo chiamati a conformarci a ciò di cui facciamo memoria, ha ribadito il nostro Vescovo durante la sua Omelia molto toccante ed energica. Momenti di emozione hanno dominato la celebrazione attraverso i segni dell’acqua, del Sacro Crisma sparso sulla nuova mensa e dell’incenso la comunità, stretta attorno al suo Pastore, viene ad essere rigenerata nel culto e nella fede.
Un grande scrittore cristiano dei primi secoli, Origene, afferma: «Se vero altare è Cristo, capo e maestro, anche i discepoli membra del suo corpo, sono altari spirituali. E, secondo un’altra immagine assai frequente negli scrittori della Chiesa, i fedeli sono essi stessi pietre vive con le quali il Signore Gesù edifica l’altare della Chiesa». È necessario che anche noi diventiamo “altari spirituali”, “pietre vive con le quali il Signore Gesù edifica l’altare della Chiesa”. Saremo in grado di farlo se terremo viva la coscienza di quanto ci viene donato, nella celebrazione liturgica, proprio a partire dall’altare: il corpo spezzato e il vino versato, alimento celeste che si dona a noi. Uniti a Gesù da una profonda comunione di fede e di amore, anche noi potremo offrire continuamente, con la nostra vita, «un sacrificio di lode a Dio, cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome». Concretamente un’esistenza vissuta come quella di Gesù.
Mentre rendiamo grazie al Signore che ci fa questo grande dono che è la consacrazione di questo altare, chiediamogli fiduciosamente la grazia di poter sempre accostarci ad esso con fede e grande disponibilità, per poter conseguire i frutti di vita che il Signore, proprio da questo altare, generosamente ci offre.

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Butembo: Sacerdoti assaliti da militari

Nella diocesi di Butembo Beni, uno dei problemi sociali più gravi è costituito dai soldati non ancora rientrati dalla guerra. Si tratta di militari segnati profondamente dagli orrori della guerra, squilibrati mentalmente, che agiscono con violenza contro ogni ragione, spesso sotto l’effetto di droghe. Sono come mine vaganti, un incubo per la popolazione. Negli ultimi giorni, ancora due preti  ne sono rimasti vittime, in due momenti diversi.
Il primo episodio riguarda Pascal Mumbere, un giovane sacerdote di 30 anni. Fino a un mese fa è stato viceparroco nella parrocchia di Bingo, gemellata con la parrocchia Sacro Cuore di Modica. Ora è viceparroco nella nuova parrocchia di Visiki.
È visibilmente scosso mentre ci ritroviamo a parlare nella procure  di Butembo, dove è venuto per alcuni giorni al fine di riprendersi un po’ dallo shock. Nella notte tra il 24 e il 25 marzo si trovava in un villaggio della foresta, Kanyatse, a cinque giorni di marcia  a piedi dalla chiesa parrocchiale, per la tradizionale visita di Quaresima ai fedeli sperduti nei meandri della giungla equatoriale. Ed ecco che, nel mezzo della notte, è costretto a svegliarsi di soprassalto. Dei militari sfondano la porta e Pascal se li ritrova dinanzi, senza aver avuto neanche il tempo di scendere dal letto. Cercano denaro. Pascal svuota per terra la borsa con i pochi spiccioli delle offerte raccolte durante la visita. I militari lo costringono a stendersi con la faccia a terra, minacciando di ucciderlo se non tira fuori altri soldi.
Mentre Pascal pensa di essere giunto ormai al termine della vita, fuori si sente un grido. È il vecchio catechista che accompagna Pascal nella visita. Svegliato anche lui dallo sfondamento della porta, lancia l’allarme. I banditi si precipitano fuori. Si tratta di pochi attimi. Pascal, approfittando di quella distrazione e del buio della notte, balza anch’egli fuori e scappa. Corre come un forsennato nella foresta, nudo e scalzo, incurante  degli arbusti spinosi che gli lacerano le carni. Mi mostra ora le ferite ancora vive. Corre a mozzafiato per un’ora intera, con il terrore di essere inseguito. Si ferma soltanto quando arriva al fiume. I militari intanto picchiano il catechista e lo lasciano a terra mezzo morto. Ma secondo i medici, se la caverà.
L’altro episodio è avvenuto proprio ieri sera, sabato 2 aprile. A fare le spese della violenza dei militari sono stati Faustin Kinda e Ghislain Katsere, entrambi viceparroci a Maboya, gemellata con la parrocchia San Giuseppe di Pachino. Quando già era buio, si sono offerti di accompagnare a casa, con l’auto della parrocchia, una povera donna che, proveniente dall’ospedale a seguito di un intervento chirurgico e ancora molto dolorante, era rimasta in strada per un guasto al taxi su cui viaggiava. Sulla strada del ritorno, alle ore 20 circa, i due sacerdoti si sono imbattuti in quattro militari. Il ritornello è quello di sempre: il denaro. Ghislain e Faustin non hanno altra scelta e sono costretti a sborsare il poco che hanno e i telefonini. I militari intascano il malloppo e sembrano lasciare andare senza altri problemi i due malcapitati, ma ecco che si scatena la violenza fine a sé stessa: Faustin è già risalito sull’auto, quando un soldato gli si accosta e gli spara a bruciapelo alla gamba. La pallottola trapassa l’anca da parte a parte, fortunatamente senza toccare l’osso. I militari si allontanano apparentemente soddisfatti, sogghignando fra loro.
Vado a fare visita a Faustin all’ospedale Matanda di Butembo, dove stamattina ha subito l’intervento chirurgico. Ancora non si è ripreso bene dall’anestesia ma soprattutto dallo shock. Accanto a lui è Ghislain, che mi racconta l’accaduto nei particolari. Sono presenti anche alcuni confratelli sacerdoti, con i volti sgomenti. A chi gridare queste ingiustizie, quando lo Stato e la legge sono ancora senza struttura e vigore? Solo la fede dona la forza di andare avanti e di credere in un domani migliore, nonostante tutto.

Modica. Rito “crisci ranni” e convegno sulla città

Si riprenderà quest’anno a Modica l’antico rito pasquale con cui al suono delle campane di pasqua i genitori lanciavano in alto in bambini augurando appunto “Crisci ranni!”, legando il diventare grandi al grande significato della festa cristiana per eccellenza. Con la partecipazione di scuole. parrocchie, associazioni (a iniziare dall’Avis) il giovedì dopo pasqua – 28 aprile – nell’area della Fontana alle 18, mentre suoneranno le campane della città, si racconterà e rivivrà il rito e per l’occasione si avvierà il progetto del Piano socio-sanitario di zona “benvenuto cittadino”: Si farà quindi festa con musica e cibi pasquali. Il giorno successivo si cercherà di cogliere le valenze ordinarie del rito, attraverso un convegno sull’educare nel nostro tempo, che si terrà dalle 18 alle 21 di venerdì 29 aprile alla Domus S. Petri. Si prevedono relazioni di padre Giovanni Salonia, direttore dell’Istituto di Gestalt, e della professoressa Giuliana Martirani, docente nell’università di Napoli ed esponente molto nota in tutta italiana dell’educazione nonviolenta. Concluderanno il convegno il Vescovo di Noto Mons. Staglianò e il Sindaco di Modica. Le due iniziative si innestano nel cantiere educativo “Crisci ranni” con cui da mesi si sono attivati da parte della Caritas diocesana e della Casa don Puglisi laboratori e percorsi educativi nell’area attrezzata padre Basile alla Fontana.

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Quinta Domenica di Quaresima: Domenica di Lazzaro

I   temi  delle  precedenti   domeniche  convergono   in   felice   sintesi nell’odierna celebrazione: Gesù, sorgente dell’acqua viva (III dom.) e della luce (IV dom.), è colui che conferisce la vita a chi crede in  lui.   Le   tre   letture   sottolineano   la   medesima   realtà:   solo   la forza   dello   Spirito   fa   rifiorire   la   speranza,   scioglie   i   legami della morte e restituisce la vita in pienezza. L’uomo è radicalmente impotente di fronte alla forza della morte. Sintomatico è il lamento degli esiliati a Babilonia: « Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza  è finita»  (Ez  37,11).  Ma  Dio  rassicura  il  suo  popolo: questi  « conoscerà »  il  Signore, farà cioè esperienza  diretta  della sua potenza vivificante  (cf  1″  lettura).

Riflessione del Vescovo di Noto Mons. Antonio Staglianò

Chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Io sono la risurrezione e la vita (Gv 11,1-45)

 “Lazzaro vieni fuori”: con queste parole Gesù “risuscitò” Lazzaro morto da quattro giorni, cioè definitivamente morto. La sua parola è potente, è capace di ridonare la vita, poiché è la “Vita in persona”, Colui che ha il potere di donare la vita e di riprenderla di nuovo. E’ chiaro, quella di Lazzaro non è come la risurrezione di Gesù stesso dopo la sua morte in croce. E’ più un risuscitamento che una risurrezione: Lazzaro viene riportato alla vita terrena che lo porterà ancora a morire. Diversamente Gesù entra nella Vita eterna che non muore mai più. Eppure questo miracolo – come ogni altro miracolo compiuto da Gesù – è come un simbolo straordinario che annuncia qualcosa di veramente nuovo, una speranza certa: la morte non è l’ultima definitiva parola sull’uomo; l’uomo è per l’immortalità in Dio, è per la risurrezione dai morti, perché Dio è il Dio dei vivi e non dei morti. Certo, occorre credere, aver fede, sperare contro ogni speranza, possedere occhi nuovi sulla vita e sulla morte.
La morte fa paura a tutti, specialmente quanto è prematura e tocca magari l’innocente: perché si muore così, si domandano in tanti, mentre la maggior parte evade dall’interrogarsi stordendosi con i “rumori e gli abbagli” dell’esistenza o anestetizzandosi con certi sofismi del tipo: “non devo aver paura della morte perché quando viene, io non ci sarò più e fino a quando io ci sono, la morte non verrà”. Raccontatelo però a certi genitori, a certe mamme che piangono – come Rachele, la quale non vuole essere consolata perché i suoi figli non ci sono più – i figli tragicamente scomparsi, vite spezzate incomprensibilmente, proprio nel bel mezzo della gioia di vederli crescere, sani, belli. Troppe volte la morte mostra la sua inimicizia verso gli uomini con la sua falce oscura e tenebrosa, ci raggiunge alla sprovvista e colpisce insanabilmente gli affetti degli uomini. La domanda sulla morte resta sempre comunque insoluta.
Tragicamente si viene avvolti da una realtà nuova che sembra non appartenerci, ci piomba addosso, ci travolge e cambia tutto in un istante, ci coglie alle spalle ferendoci irrimediabilmente. Il racconto del Vangelo sulla morte di Lazzaro ci presenta una scena totalmente angosciante.
La narrazione sviluppa elementi a prima vista un po’ strani. Considerando il preambolo dell’autore del quarto Vangelo, Gesù, essendo amico di Marta e Maria, avrebbe dovuto precipitarsi subito per guarire il fratello Lazzaro. Si resta però molto sorpresi nel vedere come Gesù, il taumaturgo, non si scomponga per niente dinanzi alla notizia della grave malattia di Lazzaro e addirittura si fermi altri due giorni nel luogo dove si trovava. Cristo, che è per noi il Salvatore, non ascolta? Non si interessa? Non viene in nostro soccorso? Sono interrogativi che sintetizzano bene lo sconforto che assale quanti percepiscono la “sordità di Dio” di fronte al loro grido di aiuto, rivolto a un Padre di misericordia e di perdono in quelle estreme conseguenze in cui ci si ritrova di fronte alla malattia grave. Misteriosa è la risposta di Gesù: questa malattia è per la gloria di Dio, perché il Figlio di Dio venga glorificato! Gesù ricorda ai suoi discepoli che mentre è giorno non può esserci il buio: la stessa Luce che aveva illuminato gli occhi del cieconato, ora non solo riporterà in vita il povero Lazzaro, ma permetterà a chi crede in Lui di non inciampare, di essere illuminato nel proprio cammino.
Nella comunicazione che Gesù fa ai suoi discepoli sembra esserci un equivoco: Gesù parla di sonno; i discepoli pensano al sonno come riposo; bisognerà attendere che il Maestro dipani l’enigma del sonno rincarando la dose; Lazzaro è morto e Gesù è contento di non essergli stato presente? Un discorso simile lascia sgomenti. Dietro però c’è la visione pedagogica del credente: la permissione della morte di Lazzaro diviene occasione per professare la propria fede nella risurrezione dai morti, questa fede redime il discepolo e lo rende vittorioso sulla paura della morte. “Dov’è o morte il tuo pungiglione, dov’è o morte la tua vittoria”. Niente e nessuno potrà separare il discepolo dall’amore vittorioso di Dio sulla morte: l’episodio di Lazzaro anticipa la verità che la fede delle sorelle attestano. Dio non ci lascia mai soli nella morte e per farlo distrugge la morte nelle su radici più profonde, convertendone la direzione ultima: la morte ci vuole abbattere e disperare, pretende che noi chiudiamo gli occhi alla speranza, impone di seppellirci con i nostri cari defunti nella stessa bara, senza più energie e vitalità, senza più gusto per l’esistenza e per gli altri. No, proprio questo non deve accadere all’occorrenza del morire dei nostri fratelli.
Per Lazzaro non sembrano esserci più speranze, perché è da quattro giorni nel sepolcro. Per Maria la rassegnazione sta prendendo il sopravvento, lo sconforto e la delusione, perché se ne sta seduta. Per Marta invece la partita non sembra ancora finita: sa che l’arrivo di Gesù potrebbe far cambiare le cose. Nonostante la realtà dica altro, anche per Maria l’assenza di Gesù non è del tutto definitiva: l’esperienza fa stare coi piedi per terra … “se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto”, la fede fa elevare il pensare al credere che, “qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà”. Gesù adesso è rassicurante non solo per il futuro, non solo perché c’è, ma soprattutto perché è Lui risurrezione, cioè la rinascita, è in Lui che chi muore vive, è in Lui che la trascendenza dell’Eterno Dio vive vittoriosa nell’immanenza storica delle nostre miserie, anche e soprattutto quelle della morte.
Ora, è certo: davanti al dolore dell’uomo Dio non se ne sta a guardare. Forse noi vorremmo che lo impedisse, che facesse virare il male altrove, che lo ostacolasse, ma piuttosto egli si fa prossimo, si avvicina, si unisce attraverso la commozione, con una immedesimazione profonda, capace di raggiungere la nostra identità: Lui diventa uno di noi e si mette al posto nostro, all’occorrenza, una volta per tutte e per tutti, colpevoli e innocenti.
Gesù si commuove, si turba, scoppia in pianto, mostra la sua vera umanità: questa umanità è tale nonostante Egli sia Dio, ma proprio perché Egli è il Figlio di Dio nella carne. In virtù del fatto che Egli è Dio può umanamente soffrire di più e più intensamente: è la sofferenza umana del Figlio di Dio. Egli ama con un cuore indiviso: ama l’uomo e l’umano e a suo favore interviene con il “dito di Dio”. Perciò, da un lato, è capace di soffrire con l’uomo, dall’altro manifesta la gloria di Dio. D’altronde questa malattia non era per la morte ma perché il Figlio di Dio venga glorificato. Dio non permette il nostro annullamento perché lo ha già assunto su di sé e, pertanto, se crediamo vedremo la gloria di Dio!
Quand’anche la nostra vita sembra essere oppressa da ogni parte non sarà mai schiacciata, se crediamo. La fede riempia di ottimismo la nostra vita. Noi non siamo soli. Il Signore, risurrezione e vita in eterno, è con noi, l’Emmanuele. Il ritorno alla vita è il frutto di una umanità semplice che trova la sua testimonianza in tutte quelle mamme e quei papà che non disperano di vedere i propri figli guarire, in tutti quelli che sperano di ritrovare il lavoro perduto, in tutti quelli che si riconciliano coi propri cari, in tutti quelli che ritornano ad essere uomini liberi dalle schiavitù di un mondo che ci vuole ancora imprigionati da un pessimismo esasperato.
Si, importa ora dare alla fede nel “Signore della vita” uno spessore umano e pratico che non può essere rinchiuso semplicemente nel “religioso”, nel rituale: è nelle opere di carità fraterna, nelle opere di misericordia corporale che mostriamo una vita rinnovata e risorta, testimoniamo che veramente il Signore è capace di convertirci, di cambiare il nostro cuore, di liberarci dalle nostre morti e di risuscitarci a vita nuova.

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XIX Convegno Internazionale per L’Educazione alla Pace

Nei giorni 6-7-8 Aprile 2011, a Scicli, presso il Cine-Teatro si è svolto il XIX Convegno Internazionale per l’Educazione alla Pace sul tema “Le Religioni e la Pace”. Tra i relatori anche Mons. Antonio Staglianò era stato invitato a presentare la relazione sul tema “Le Religioni e la Pace”;  il Vescovo, non potendo partecipare al convegno per impegni improvvisi, ha delegato il Vicario Generale don Angelo Giurdanella che, dopo aver portato i saluti di Mons. Staglianò ai convenuti al convegno, ha letto la relazione.
Il  Vescovo ha incentrato il suo intervento sul rapporto tra le religioni e la pace, sottolineando che esso è  strettissimo, nonostante il ricordo delle cosiddette “guerre di religione” e che spesso il nome di Dio è stato usato ottusamente per praticare violenza e contrapporre gli esseri umani  gli uni contro gli altri. 
S.E. ha ribadito che l’uomo è chiamato con tutte le sue forze a collaborare perché la pace, trovi posto nel cuore di ognuno e in tutti gli angoli della terra. Questo implica il “dovere” di pregare per la pace, che, essendo un dono di Grazia che viene da Dio, deve essere richiesta e invocata incessantemente. È la preghiera che ci rende tutti fratelli, accomunati dal “desiderio di pace e ci infonde il coraggio di scelte improntante alla verità, alla giustizia e al perdono, perché non c’è pace senza giustizia e non c’è giustizia senza perdono; il perdono è la via comune per l’impegno concreto a favore della pace!

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Sosteniamo il Seminario e le Vocazioni

«Date loro voi stessi da mangiare»  (Mc  6,37) è il titolo che accompagnerà  quest’anno il Giornalino del Nostro Seminario che, come di consueto, sarà distribuito a tutti i fedeli nella giornata ad esso dedicata.
Come da tradizione, nella nostra Diocesi, mentre la Domenica del Buon Pastore  (ovvero la domenica dopo Pasqua), è dedicata alle Vocazioni, la domenica di Pasqua si celebra  la Giornata diocesana per il Seminario. La raccolta delle offerte di Pasqua, infatti, è destinata a sostenere il nostro Seminario. Come è noto esso è il luogo opportuno dove dei giovani , attraverso la vita fraterna attorno al Maestro, la preghiera e lo studio, cercano di discernere con l’aiuto della Chiesa la verità del loro desiderio di accogliere il dono del Sacerdozio ministeriale. Sono anni di paziente semina e di graduale scoperta di sé, dove ci si conosce e si prende consapevolezza, non solo del dono della presenza premurosa del Signore, ma anche dei tanti limiti che ci caratterizzano come uomini. Motivo per cui ci si domanda con frequenza: «Che cosa ho io da dare?» o «che cosa ha visto il Signore in me che io non vedo?» e l’unica risposta che si è in grado di dare è la classica: «Cinque pani e due pesci» che caratterizza ogni discepolo. Quindi, poco o nulla rispetto alla fame e la sete che il mondo presenta. Dentro questo disagio, però, il Signore continua a ripetere «Date loro voi stessi da mangiare».
Questa è la risposta spiazzante che Gesù  consegna ai discepoli, nel vangelo di Marco, quando, nell’episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci, gli rivolgono la preoccupazione di tanta gente che deve necessariamente essere sfamata.  Lui stesso davanti a questa fame risponderà donando la sua vita
In questo numero del Giornalino abbiamo voluto seguire un piccolo itinerario che tenga conto di questo suggerimento di Gesù accoppiando ad esso un’ immagine plastica, cara all’iconografia cristiana dei primi secoli: il Pellicano. Gesù come il Pellicano consegna ai discepoli la sua carne e il suo Sangue.
Quindi  in questo numero i  seminaristi ci faranno il punto su:
1. la loro vita in Seminario
2. l’anno trascorso
3. l’itineranza vocazionale a Pachino e a Pozzallo
4. un esempio sacerdotale di dono
5. l’anno Propedeutico a Noto
Vi ringraziamo in anticipo per la vostra vicinanza nella preghiera, nell’affetto e nel sostegno economico che saprete darci secondo la generosità del vostro cuore.

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Per ripensare il Mediterraneo e… il futuro del mondo

Per la terza volta il Coordinamento nazionale dell’immigrazione delle Caritas di tutta Italia si svolge in Sicilia. Tre anni fa l’arcivescovo di Agrigento, don Franco Montenegro, lo volle a Lampedusa per riflettere su questa nuova frontiera della Chiesa e dell’umanità del futuro, luogo di sbarco, di speranza, di disperazione, di accoglienza difficile ma concreta ed evangelica. Mons. Montenegro volle che ci si ricordasse come anche Gesù è stato profugo e come l’Erode che lo cerca per ucciderlo (come accaduto in tanti respingimenti!) si annida in ciascuno di noi. L’anno scorso è stata la volta di Trapani, con l’ospitalità di alcune Caritas del Mediterraneo che ha allargato l’attenzione alla complessità della nostra storia. Ora quest’anno si terrà a Modica, una città in cui il problema non è l’emergenza ma la ricerca quotidiana dell’integrazione. E quindi sono interessate – e diventano promotrici del Coordinamento 2011 insieme alla Caritas Italiana – la nostra diocesi e quella di Ragusa, che avranno una possibilità eccezionale di guardare a quello che sta accadendo in questi giorni attraverso giornate di testimonianza e riflessione che puntano in avanti lo sguardo. Così fin dall’inizio ci sarà ancora  il tema del Mediterraneo – l’11 maggio – e subito dopo – giovedì 12 – quelli dell’integrazione e dell’accompagnamento dei minori. L’ultimo giorno sarà dedicato ancora a Lampedusa. Concluderà il nostro Vescovo presiedendo a mezzogiorno del 13 maggio l’eucaristia in san Pietro. Mai come in questa occasione eucaristia, vita, storia si congiungono a dirci come la storia va guardata con gli occhi di Dio, così come abbiamo capito nel Sinodo a partire dal gemellaggio. Ma anche si rinnova pure la responsabilità a porre nel nostro territorio segni del Regno che viene, come già accade con alcune esperienze nel territorio ospitante (la scuola di italiano per immigrati, il Centro per rifugiati politici Babel, l’inserimento di immigrati nel cantiere educativo Crisci ranni…) che prendono significativamente la denominazione di “Sentieri di Isaia”. Espressione cara a Giorgio La Pira, che pensava il Mediterraneo come il nuovo “lago di Tiberiade” ove far incontrare la fede (Gerusalemme), la cultura (Atene), il diritto (Roma), le relazioni (l’Africa). Espressione che ricorda come il nostro impegno diventa collaborazione al Regno che viene.

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“Abbiamo ritrovato la vita!”

E’ questo il tema della XV Giornata dei bambini vittime della violenza, dello sfruttamento e dell’indifferenza che viene celebrata dal 25 aprile alla prima domenica di maggio con celebrazioni di preghiera, incontri culturali e iniziative suscitate dalla fantasia e creatività di tutti.
Da 15 anni l’Associazione Meter, realtà ecclesiale impegnata nel mondo per la tutela dei diritti dei bambini e per la promozione della dignità e del loro benessere, celebra l’annuale appuntamento sia per ricordare le vittime degli ingiustificati atti di violenza,di sfruttamento e di indifferenza sui bambini, sia per esaltare, in una logica evangelica di prossimità e aiuto alle fragilità umane, la pedagogia dell’amore: “dall’amore si può rivivere, nell’amore si ritrova la ragione umana e di fede per riprendere gli interrotti cammini”.
Quest’anno, in particolare, Meter vuole porre in evidenza l’accoglienza  che ha operato nei confronti dei piccoli e degli esclusi: la croce, la sofferenza non sono la fine di ogni speranza, ma , nella fede, rappresentano la sorgente di vita e di risurrezione.
Meter, attraverso il Centro di ascolto e di accoglienza, ha ascoltato e concretamente aiutato più di 1000 bambini e le loro famiglie; ha segnalato più di 250.000 siti pedopornografici, contrastando in tal modo il pericoloso fenomeno della pedocriminalità; ha incontrato migliaia di famiglie, di giovani, di adulti e di bambini, annunciando una consegna di Gesù: “ciò che avete fatto loro lo avete fatto a me!”
Lo scorso anno Benedetto XVI ha rivolto un “saluto speciale”al Regina Coeli per la Giornata dei Bambini Vittime ed un invito pressante rivolto agli educatori e a quanti si occupano di infanzia a tutelare i minori in difficoltà e le loro famiglie. Il puntuale messaggio del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano  inoltre,sottolineò l’impegno di tutta la società civile per la difesa del bene prezioso dei piccoli cittadini.
Nell’invitare tutte le comunità a diffondere l’iniziativa, Meter ha dichiarato che  “C’è un universo di sofferenza nel quale versano milioni di bambini;  ma c’è anche un universo di sofferenza redenta, accolta, guarita, dove la potenza dell’Amore di Dio, attraverso un’umanità non rassegnata al male, opera percorsi “samaritani” per “guarire e ritrovare la vita”!
Per maggiori informazioni e adesioni consultare il sito dell’Associazione Meter onlus www.associazionemeter.org; scrivere a segreteria@associazionemeter.org 

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Quarta Domenica di Quaresima: Domenica del Cieco Nato

Quando nasce un bambino, con felice espressione si dice che « è venuto alla luce ». Solo questo passaggio permette la continuità della vita. Quando un uomo muore si dice che « si è spento ». E significativo che il linguaggio comune identifichi la vita con la luce e la morte con la tenebra. Luce e tenebre esprimono simbolicamente la condizione umana nelle sue contraddizioni: non solo vita-morte, ma anche verità-menzogna, giustizia-ingiustizia. Lo stesso avvicendarsi cosmico del giorno e della notte sta ad indicare la fondamentale importanza del rapporto luce-tenebra: avvolto nella tenebra il mondo perde la sua consistenza, le cose non hanno contorno né colore, l’uomo è cieco, inerte, afferrato da un senso acuto di solitudine, di smarrimento, di paura. Il primo bagliore risveglia la vita, la gioia e la speranza.

Breve riflessione del Vescovo di Noto Mons. Antonio Staglianò

La vita è “cammino” e camminando s’apre cammino (Arturo Paoli). Per la nostra condizione umana – dobbiamo ammetterlo- la purezza non sta all’inizio ma alla fine di un percorso possibile di santità. Perciò la quaresima è un cammino di purificazione, insieme a Cristo e davanti a Lui. Di Lui abbiamo infatti bisogno, della sua vicinanza premurosa e della sua prossimità compassionevole. E’ vero: senza di Lui non possiamo far nulla.
Dopo la tentazioni nel deserto, dopo la contemplazione della bellezza di Dio sul Tabor, dopo aver scoperto insieme alla Samaritana quanta sete abbiamo di Dio e della sua presenza, in questa settimana la Parola di Dio ci dice cosa significa avere luce e vederci chiaramente per uscire dalla tenebra in cui siamo avvolti. Cristo è colui che disseta e da luce: se alla Samaritana aveva detto di essere lui l’acqua viva al cieconato dirà di essere la luce del mondo quella che illumina il cammino di ogni uomo. La malattia, il dolore e la sofferenza sono diventati nel nostro tempo un problema molto serio, specialmente se colpiscono gli innocenti, chi non ha nessuna colpa se non quella di nascere (situazione paradossale: perché in realtà nascere è una grande benedizione e non una colpa).
Gesù è la luce del mondo, è luce per tutti. Come tale illumina e permette di vederci. Ma cosa c’è da vedere o da vedere meglio?
Esistono cecità molto profonde: tanto più profonde quanto meno vengono riconosciute. Pensiamo alla cecità religiosa di coloro i quali pensavano – seconda la teoria della retribuzione – che alla sofferenza corrisponde rigidamente una colpa. Ora, il cieco incontrato da Gesù è nato proprio così: non ha peccato lui, e allora chi? I suoi genitori, ovviamente: il peccato annidato nell’anima dei padri ricadrebbe in forma di male nel corpo, nella mente o nello spirito dei figli.
Gesù si avvicina e guarisce il cieconato e permette di vedere la salvezza possibile che viene da Dio e dalla fede: “credi tu nella liberazione che il Messia viene a portare?”. Il cieconato crede: è questa la sua forza. Il Messia avrebbe portato un “riscatto” di tutti i bisognosi: avrebbe fatto camminare gli storpi, udire i sordi, vedere i ciechi e avrebbe annunciato la buona novella del Regno di Dio come pace, amore, nuova fratellanza, giustizia e gioia. Il cieco ci crede e per la potenza dello Spirito Gesù lo guarisce dalla sua nativa cecità. Questa condizione – nativa cecità – appare come una metafora piena di significato: è nato così, cieco, emblema per tutti coloro che vengono al mondo. Non nasciamo tutti ciechi? Cioè bisognosi di vedere: acquisiamo la nostra capacità di vedere a poco a poco. Siamo capaci di vedere, ma non ci vediamo da subito. L’oscurità delle tenebre avvolgono i nostri occhi che “usciti dal grembo della madre” restano chiusi perché refrattari alla luce. A poco a poco gli uomini aprono gli occhi e attivano un “processo” attraverso il quale impareranno a vedere la realtà così come la realtà è effettivamente. Non dobbiamo mai dimenticare che per vederci non basta “aprire gli occhi”: è necessario imparare qualcosa, entrare in un cammino in cui tutti i sensi si aiutano e per il quale il bambino appena nato riconosce la madre più per l’olfatto che per la vista. Vedere le cose, gli oggetti che ci stanno davanti è un evento meraviglioso e complesso. Domandiamoci ora: quanto lo è l’evento che ci permette di guardaci dentro le profondità del nostro cuore, di vedere dentro il cuore degli altri, di discernere con una “vista capace di riconoscere la realtà” i fatti dell’esistenza quotidiana.
E allora, chi è il cieco e chi è il vedente?
Quanti di noi – ovviamente togliendosi dalla presunzione della vita e da certa ubriacatura dell’orgoglio personale- possono dire: “io ci  vedo e non ho bisogno che qualcuno come Gesù mi dia la vita, mi sani dalla mia cecità”. Sono convinto che nessuno lo possa seriamente dire. Tutti invece siamo nella condizione del cieconato, nel bisogno che ci fa invocare il dono di un aiuto e ci fa gridare “Gesù Figlio di Davide abbi pietà di me”. Cosa vuoi? Che io ci veda Signore.
Il male è vasto nel mondo. Troppo diffuso per non essere sconfortante. E’ un male che si manifesta in tante malattie, che procura dolore, ma che si radica nel profondo dell’anima e non si risolve semplicemente “assumendo l’aspirina”. Lo sviluppo della scienza aiuta noi umani a risolvere tanti problemi legati al dolore fisico e psicologico. Resta però – quello della scienza – un approccio banale e superficiale se si dichiara risolutivo dei problemi cui siamo inchiodati dalla sofferenza umana. Esiste infatti un soffrire tra gli uomini che nessuna medicina potrà mai dissolvere: è il soffrire a causa delle tenebre che obnubilano la nostra vista e ci impediscono di guardarci come fratelli, riconoscendoci come destinatari del dono, dell’amore. Quanta cecità nelle guerre, nelle lotte fratricide, nelle sopraffazioni dei più forti nei confronti dei più deboli, nel calpestare la dignità umana dei piccoli, dei fragili, delle donne, attraverso la mercificazione dei corpi, nelle tante forme della schiavitù nuovamente possibile anche nel nostro Occidente dell’opulenza. Ancora, quanta cecità nelle società dove la solidarietà umana perde sempre più colpi e l’individualismo esacerbato  occupa sempre più spazi, mentre la competitività mercantile invade le coscienze e ci convince che siamo tutti “lupi” l’uno per l’altro.
E’ vero? Siamo lupi destinati a scannarci, ad aggredirci, a fagocitarci gli uni gli altri? Dio non ci vede così e Gesù ci porta la luce di Dio, cioè il suo sguardo sulla nostra vita. Noi siamo creature amate e pensate dall’eterno, figli dell’unico Padre, fratelli tra noi, chiamati alla comunione e all’amore, a volerci bene fattivamente,  “nei fatti e nella verità”, corresponsabili del nostro destino, costruttori della civiltà umana dell’amore. Gesù fa che noi vediamo di questa vista, fa che possiamo vincere la nostra cecità e vederci come il padre tuo ci vede. Gesù Figlio di Davide abbia pietà di noi.
Guarigione dobbiamo chiedere, della vista dell’anima. Gesù si avvicina e opera oggi come allora lo stesso miracolo. Ci converte all’amore: ci toglie dall’amore di sé fino all’annientamento dell’altro e sanandoci e liberandoci ci introduce nell’amore vero, l’amore dell’altro fino alla rinuncia di sé.
Per operare questa risurrezione della nostra vista, ci vuole o no purificazione del cuore. Purifica il cuore e potrai vederci bene. Se il cieconato ora ci vede, ma non si converte nel cuore, l’acquisto di quella vista non gli servirà, anzi peggiorerà le cose, perché lo immetterà in un abisso di tenebra (quella barbarie dal volto umano che assume le forme con cui l’inimicizia della morte ci offende giorno dopo giorno) da cui il suo essere cieco lo aveva paradossalmente preservato.
In Gesù ora si manifestano le opere di Dio: la pedagogia di Dio vuole che dal male presente nel mondo si esca non con un intervento da Deus ex machina, ma con responsabilità e consapevolezza. Da qui l’urgenza di una conversione vera, di una radicale metanoia (un capovolgimento di mentalità a 360 gradi). Davanti al dolore e alla sofferenza, Gesù non si pone il problema di chi ha peccato per poi condannare: Egli è venuto a salvare.
Come si racconta in altri passi, Gesù chiede se c’è nel cuore del peccatore il desiderio della guarigione, simbolo della guarigione totale che tocca tutta l’esistenza. La salvezza che egli porta non è quella di uno stregone potente che ha la possibilità di utilizzare “medicine segrete e sconosciute”. A questa salvezza deve corrispondere la fede. Spesso Gesù dice, operando miracoli: “va la tua fede ti ha salvato”. La fede presuppone apertura e disponibilità verso l’operato di Dio. Occorre anzitutto riconoscere che Dio c’è e che è all’opera, senza pregiudizi di sorta, senza le mormorazioni dell’incredulità, la quale si fa un Dio a propria immagine e somiglianza e poi lo denigra e lo mette da parte perché non lo vede operare come si desidera. La fede invece accoglie il progetto di Dio che è progetto di amore e di superamento del male, di ogni male. E’ un progetto coinvolgente la nostra libertà e ci chiede di comprometterci nell’operare il bene. Chi invece teorizza a partire dalle proprie idee su questo progetto – come facevano i farisei del tempo – comincia a “fare salotto” sul progetto di Dio e alla fine si giustifica per non operare nulla, per non impegnarsi, per evadere la responsabilità cui la situazione di disagio e di sofferenza dell’altro appella: “non lasciarmi soffrire da solo”.
L’atteggiamento farisaico non si è concluso con l’epoca di Gesù, continua a insinuarsi in tutte le epoche e in tutti i cuori perfino quelli più moralmente predisposti a compiere la volontà di Dio.
L’esperienza del cieconato è anzitutto salvezza per lui, un  cominciare a vedere che lo porta alla vista piena e compiuta, quella della fede che lo apre all’incontro con il suo Salvatore. Per questa via, egli ha ritrovato se stesso, potendosi vedere in relazione ad altri. Il “vedersi” e il “vedere” ha potuto gridare al miracolo, ma i suoi occhi ora riescono a vedere ben altro: che è stato raggiunto dalla multiforme grazia di Dio. Il cieco conclude il suo incontro con Gesù dicendo “Io credo” e si prostra dinnanzi al Figlio dell’Uomo.  Anche noi con il cieco possiamo dire: ” Io credo Signore che tu sei la luce del mondo. Donami la grazia di riscoprire il valore del nostro battesimo e l’identità del nostro essere cristiani”.
Buona continuazione del cammino quaresimale, per rinascere a “vista nuova”. 

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