Nella fossa di Sgarbi dovevo parlare di Dio Padre

Il dott. Mauro Pizzighini, direttore del settimanale di attualità pastorale “Settimana”, ha chiesto al nostro Vescovo, mons. Antonio Staglianò, di narrare quanto accaduto nel corso della trasmissione televisiva, condotta dal critico d’arte Vittorio Sgarbi, andata in onda su Raiuno il 2 Maggio 2011.

Riproduciamo, integralmente, l’articolo pubblicato dal predetto settimanale nel numero 23 del 12 Giugno 2011 alle pagine 14-15 
 

Lo studio allestito  era  bellissimo e  oltremodo  significativo:  una specie di ricostruzione dell’areopago di Atene. Mi guardai  intorno e cercai dove  fosse  la statua  dedicata  al Dio ignoto. Il riferimento a san Paolo mi rimandò intuitivamente al suo “insuccesso” e perciò mi ritornarono in mente  le preoccupazioni di quando  venni  a sapere  dai  giornali  l’intenzione di Sgarbi di invitarmi  al suo nuovo programma culturale in prima serata  e in diretta su Rai1 dal titolo Il mio canto libero. La televisione esibisce troppo e comunica poco e io, come vescovo della Chiesa  cattolica,  non  ho nulla  da esibire  e tantissimo  da  comunicare. Così pensai e perciò mi rivolsi ad amici per  chiedere consiglio  e  manifestare  le  mie  perplessità e  il timore che «qualunque fosse stato l’esito, in un modo  o in un altro  mi sarei scottato».  Partecipare sarebbe stato  per me un atto  di libertà  rispetto  a certi tatticismi  che pur sono fondati  su ragioni sapienti. Lo strumento televisivo è vorace, quelli  dei mass media  in genere  sono spazi difficili e pericolosi  da abitare.  Essere presenti è però  importante: nei mass media pontificano tutti sul cattolicesimo e su Dio, specialmente  i razionalisti atei che, scrivendo e parlando di cristianesimo a modo loro, realizzano  introiti  economici consistenti. Per  lo più si tratta di ricostruzioni infondate e bizzarre del cristianesimo e del cattolicesimo, su cui poi si spara  addosso,  spesso ridicolizzandole. Su questo non mi pare ci sia par condicio.  Per non parlare di chi  con tutte  le buone  intenzioni – vuole  rifondare la fede  e “spara” contro  i dogmi fondamentali della tradizione cristiana,  destrutturandoli e “spiegandoli con razionalità”. Peccato che la spiegazione “razionale”  portata sia  in  realtà   lo  svuotamento  della  loro  verità,  con tutte  le conseguenze per  la  spiritualità e  il cammino  di fede  dei  cristiani  e dei cattolici.

 
La crisi dell’umano
D’altronde è necessario oggi per l’evangelizzazione  abitare – con prudenza  e competenza – il mondo  dei mass media. I vescovi italiani lo ribadiscono  da anni  e anche  negli ultimi Orientamenti pastorali del nuovo decennio su Educare alla vita buona del Vangelo ne parlano  con insistenza.  Nel frattempo, sotto l’ispirazione   del  magistero  di  Benedetto XVI, viene costituito un Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione  che di per  sé implica  un nuovo investimento dell’intelligenza della fede in territori oramai  post-cristiani, mentre l’iniziativa promettente del Pontificio  consiglio per la cultura  denominata “Cortile dei  gentili” mostra  quanto sia determinante oggi aprire  il dialogo con tutti gli uomini che  sono  alla  ricerca  della  verità e si pongono le domande fondamentali sul senso della vita e sul significato del dolore, della morte, dell’ingiustizia. Una nuova santa alleanza viene auspicata  dal cattolicesimo tra credenti e “non-credenti pensosi” per ritornare a pensare insieme  sulle cose che veramente valgono  per l’umano dell’uomo,  oltre  la deriva  superficiale dell’appiattimento sulla rissosità della politica  e sull’immoralità diffusa,  perpetrata  nella   mercificazione dei corpi umani  alla smaniosa  ricerca del piacere  per sé in faccia al dolore degli altri. La  crisi vera  che  stiamo  vivendo non è tanto  economica o finanziaria, ma è più profondamente crisi culturale, in senso  forte  è crisi dell’umano. L’umano è ridotto alle condizioni materiali della propria esistenza, mentre l’individualismo  crea competitività violente  da “homo  homini lupus”. Esiste allora una “controversia sull’umano” – come amava dire Giovanni  Paolo  II  – che  il cattolicesimo oggi deve affrontare con maggiore consapevolezza.  Perciò urge che mostriamo  dappertutto che il cattolicesimo è una concezione del mondo  e della vita, una visione dell’uomo e del suo destino  storico  e tutto  questo  lo è in intelligenza  e razionalità. Il cattolicesimo ha tanto logos da offrire  e chiede  che si allarghino  gli spazi della razionalità della fede, la quale può aiutare ogni forma della ragione  a recuperare le sue dimensioni sapienziali, oltre il riduzionismo della versione solo scientista della ragione. È l’invito pressante di Benedetto XVI, sin dall’inizio del suo pontificato.
Il Dio dei cristiani
In questo contesto  di motivazioni ideali, piuttosto concrete per la nuova evangelizzazione e per l’iniziativa culturale della  Chiesa  cattolica  (dopo il convegno  di Palermo  è nato allo  scopo  il Progetto culturale della Chiesa italiana,  di cui sono stato  per un decennio teologo  consulente), la proposta che Sgarbi mi fece mi sembrò un’occasione provvidenziale: il programma era strettamente culturale (non dunque di spettacolo); il tema era  “Dio”  e a parlarne avrebbe invitato  Matthew Fox (teologo  che, rievocando il gesto di Lutero, appose anche  lui 95 tesi al portone della Cattedrale di Wuttemberg), un  filosofo ateo (che peraltro mi fecero scegliere)  e poi Morgan  (cantante a me sconosciuto, ma conosciutissimo dai giovani per certe sue posizioni esistenziali  disorientanti); lui stesso avrebbe parlato di Dio in tre  soliloqui  interpretando opere  d’arte  (per lo più Caravaggio). Io avrei dovuto  dialettizzare con tutti, “mantenendo le posizioni cattoliche”, cercando di mostrare cioè che il cattolicesimo ha ragioni da vendere, argomentazioni razionalmente condivisibili anche da chi non crede come noi o non crede  affatto. Il dibattito, dunque, sarebbe stato culturale e non per questo  avrei dovuto mettere tra parentesi la mia fede. Anzi,  Sgarbi  voleva  proprio che la confessionalità della fede risultasse culturalmente apprezzabile sui vari temi trattati nelle trasmissioni  programmate (su Dio, sulla bellezza, sulla verità, sulla giustizia) e per questo aveva inteso invitare  un vescovo: voleva il cattolicesimo istituzionale, per così dire. La cosa sembrò buona anche agli amici cui mi rivolsi, benché  tutti  fossero preoccupati della personalità debordante e “individualisticamente solista”  di  Sgarbi.  Il  contenitore  era però  una  buona   occasione  per  entrare  in un “cortile  dei gentili” organizzato  dai gentili. Avrei dovuto sostenere contro Fox che il cattolicesimo non è l’ideologia del peccato originale con la quale si terrebbero compresse  le coscienze delle persone, ma piuttosto un’esperienza di fede storica  e liberante che sa bene  della fragilità umana  e delle sue profonde ferite, ma ha fiducia nell’uomo e nelle sue potenzialità redente  dalla  grazia  di Dio  in Cristo Gesù. Questa grazia viene sicuramente  – come  lui sostiene  – “prima di ogni peccato”.  E d’altronde “original blessing” (In principio era la gioia, il titolo  del suo libro  recentemente  ripubblicato in italiano)  non è una  tesi  anticattolica: perché,  a  volerla dire tutta,  proprio il cattolicesimo nel dogma cattolico dell’Immacolata  Concezione  (l’unica   donna preservata dal peccato originale) mostra che più antica del peccato originale è la misericordia di Dio e il suo pensiero gioioso e grazioso per ognuno di noi (siamo pensati e amati nel Verbo eterno di Dio in Dio). Senza dire che il cristianesimo non è gnosticismo e, perciò, per il cristianesimo, non siamo stati creati a causa di un peccato metastorico, ma siamo stati creati nella benedizione di Dio e il peccato originale si configura come un fatto storico e reale (nel più remoto dei tempi, inattingibile alla ricostruzione storiografica, ma invece evidente nella considerazione teologica) solo al capitolo terzo della Genesi. Anticattolico è, semmai, il suo panteismo che, alla ricerca di una nuova spiritualità cosmocentrica, non distingue più tra Dio e il mondo e, volendo superare il dualismo, ne confonde la differenza reale. In realtà non è necessario il panteismo per ritornare a dare la dovuta “sacralità” alla natura e alla creazione di Dio, contro un certo antropocentrismo prometeico moderno che nulla ha a che fare con l’antropocentrismo cristiano: l’uomo è posto al centro del giardino per coltivarlo e non per sfruttarlo ed esserne predatore. Il disastro ecologico cui stiamo assistendo trova l’ultima causa e la sua vera origine nell’uomo dimentico di Dio, nell’uomo divenuto vorace perché ha estromesso i comandamenti di Dio dall’orizzonte di senso delle sue attività umane. Questa è la sacrosanta
verità. Ritornare allora al Dio dei cristiani è la scommessa vera per il futuro dell’ambiente, anzitutto perché il vero fondamento di una sana ecologia è propriamente l’uomo aperto al dono, al riconoscimento dell’altro, l’uomo agapico, ovvero il cristiano rigenerato dallo Spirito di Cristo, l’uomo nuovo di cui parla s. Paolo e di cui il cattolicesimo si impegna a declinare le conseguenze operative e morali nella persona  mana, nella società e nell’impegno storico a tutti i livelli. Questo Dio – che nel linguaggio della tradizione  cristiana ci viene consegnato come il Padre del Signore nostro Gesù Cristo che dona lo Spirito – non ha caratteristiche sessiste e pertanto non può propiziare nessuna forma di maschilismo. D’altro canto anche la prima tesi di Fox “Dio è padre ed è madre” non può suonare anticattolica, poiché di fatto sono abbondanti nella Bibbia le espressioni materne (o al femminile) con le quali viene descritto il rapportarsi di Dio al  mondo e al suo popolo: “come una madre consola suo Figlio, così avrete consolazione in Gerusalemme”, mentre la misericordia del Padre “ricco in misericordia” viene plasticamente comunicata con un linguaggio estremamente femminile, con “gli uteri di misericordia”. Il nostro Dio Padre “materno” – al di là dei nomi cui siamo costretti per non essere condannati a tacere (s. Agostino) – ha la verità e il significato di quanto Gesù ci ha mostrato, perché lui, il Cristo, è la rivelazione del Padre: “Filippo chi vede me vede il Padre”. Padre allora vuol dire l’autorevolezza. Allora, chi crede in Cristo, il Figlio eterno nella carne umana, partecipa alla vita filiale di Gesù, riceve il dono Spirito Santo che gli fa gridare “Abba-Padre”. Conosce Dio in modo nuovo.
Vorrei procedere schematicamente, per esemplificare il ragionamento:
a. Secondo la rivelazione di Gesù, “Padre” è il nome con il quale conviene rivolgersi a Dio. Il termine “Dio” è troppo generico, rischia di essere astratto. La fede cristiana è, invece, un incontro personale con un Dio che ha un volto, parla, ascolta, agisce nella storia, come creatore dell’universo, come amico degli uomini e delle donne di tutti i tempi, per i quali offre salvezza, liberazione, gioia, pace.
b. Il Padre non è lontano, distante: egli è Dio e “Dio è amore”, dialoga, comunica, si fa sentire, è compagno di strada condividente. Così Gesù lo ha mostrato, un Padre premuroso, ricco di misericordia, disponibile al perdono, un continuo “dono per” chiunque si apre ad accoglierlo nell’umiltà della fede.
c. Imparare ad adorare “questo” Dio significa “saper pregare il Padre nostro”, cioè educarsi alla speranza fiduciosa, alla condivisione solidale, alla paziente sopportazione, al perdono. Chi crede nel Padre di Gesù rinuncia alla vendetta, all’egoismo, all’indifferenza e si prende cura dell’altro, diventa custode di suo fratello.
 
Custodi dei fratelli
Buoni argomenti per ragionare anche con un filosofo ateo. Il filosofo pensoso non vuole negare Dio in modo superficiale. Nella prospettiva del dialogo si deve ritenere che la posizione atea sia meglio rappresentata non tanto dall’affermazione “Dio non esiste”, quanto piuttosto dall’invocazione “Dio perché non esisti?”. L’ateo pensoso sa guardare al dramma della sofferenza e dell’ingiustizia umana e può cogliere intuitivamente che dovrebbe esistere un Dio (è uno spiraglio per la riflessione), perché è troppo il vociare dell’umano dolore diffuso nel mondo. Ma per lui Dio non esiste e però può anche interrogarsi, secondo queste belle espressioni poetiche che cito a memoria: “una voce grida dal profondo della terra e invoca un Dio che non esiste; non esiste nessun Dio che ascolti quella voce; ma perché la voce che invoca Dio esiste?”. In verità l’ateismo è inquieto nella sua ricerca sull’uomo ed è a tutti noto che gli atei dell’Ottocento negarono Dio perché l’immagine moderna di Dio era quella di un Ente superiore “contro” l’uomo. L’equivocazione moderna dell’alterità di Dio (Dio è sicuramente l’Altro, ma venne concepito come opposto e contro, secondo Romano Guardini) propiziò le ragioni dell’ateismo di Feuerbach, di Marx, di Nietzsche. Nella scoperta di Dio come Padre di Gesù potrebbe esserci la risposta ad ogni ateismo, se solo questa scoperta si potesse con sempre nuova intelligenza declinare antropologicamente. La radice della libertà umana risiede infatti nel ritrovare e nel riscoprire continuamente il “volto del Padre”. Questo volto non si lascia inscatolare dentro nessuna immaginazione umana, le trascende tutte: non è padre in quanto maschio (si devono superare le ingenue rappresentazioni legate al sesso). Come Padre, infatti, Dio è anche madre: è un Padre materno. Solo Dio dice chi è Dio, perciò solo Gesù, il Figlio di Dio, ci può dire chi è il Padre e lo ha fatto nella sua testimonianza d’amore crocifisso. Nelle “parabole del Regno” ci ha raccontato molto di lui. Così, in uno slogan vero: “adoratori del Padre, custodi dei fratelli”. La fede è cammino di vita esigente, sempre esposta al rischio dell’evasione religiosa e della schizofrenia tra pratica credente ed esistenza giornaliera. Nessuno è immune da questo rischio. Perciò è importante concentrarsi sull’annuncio vero del santo Vangelo. Il Vangelo è Gesù, il suo kerigma, è l’avvento del regno di Dio. Il regno di Dio è la signoria del Padre suo. Il contenuto dell’annuncio del santo Vangelo è: “Dio è amore”, cioè Dio è Padre, ha un volto, non è un’idea vaga di infinito, ma un agente nella vita quotidiana di ogni uomo. Da “buon” Padre, aiuta e sostiene la fatica di ogni giorno per la costruzione di una vita felice su questa terra. Questa scoperta (= rivelazione) si esprime in un’adorazione nuova, la quale esige da tutti di diventare custodi dei fratelli. Dobbiamo allora – per essere da credenti all’altezza delle sfide culturali di oggi e della testimonianza cristiana che ci è richiesta, della santità cui siamo chiamati – aiutarci a cogliere come e quanto l’annuncio della paternità di Dio responsabilizzi la libertà di ogni uomo in esperienze vere di amore e di solidarietà: “essere adoratori di questo Padre significa diventare irrimediabilmente custodi di tutti, sentiti fratelli”. È certo che la conversione umana si manifesta in grandi cambiamenti degli stili di vita, comporta veri sforzi ascetici (la metanoia cristiana non è cosa superficiale, che possa accadere come per incanto o per magia) e imponga il raggiungimento di traguardi non facili. Tuttavia questa conversione è impossibile se non si cambia proprio nell’accoglienza del nuovo volto di Dio, se non si matura nella conoscenza della sua paternità, come Gesù l’ha comunicata. Questa mistica contemplativa dei tratti veri del volto del Padre è il fondamento, nella fede, della vera conversione del nostro cuore e di tutta la nostra esistenza nella libertà dell’amore e del dono di noi stessi per gli altri.
 
Orfani di padre
Tutto questo è oltremodo significativo e culturalmente rilevante nella nostra attuale società, che soffre di “orfananza del Padre”: una crisi così profonda che ha effetti terribili nella crisi demografica che sarà il vero problema del prossimo futuro, specialmente in Europa e anche in Italia. Il cantante Morgan e Sgarbi stesso – ognuno a proprio modo – rappresentano dei veri e propri “sofferenti” di questa “orfananza del Padre”, secondo Horkheimer. Anche con loro su questo avrei dovuto dialettizzare, “mantenendo le posizioni cattoliche” che, purtroppo non vanno di moda nemmeno tra gli stessi cattolici praticanti. Non è solo il problema di Gavino Ledda con il suo “padre-padrone”; c’è ovviamente molto di più singolare che non bisogna disattendere nella stessa predicazione della paternità di Dio, se vogliamo che essa sia sempre più e sempre meglio luce e sapienza per ogni paternità umana. La riscoperta e la predicazione del volto vero di Dio, il Padre del Signore nostro Gesù Cristo che dona lo Spirito, è oggi la sfida più audace che la fede rivolge all’uomo del nostro tempo, affinché l’uomo si liberi da tutte le sue frustranti paure e si concepisca protagonista della propria storia individuale, nonché di quella collettiva e sociale. Certo, di Dio si può parlare sempre e solo a partire dalle nostre esperienze, ma nell’educazione religiosa della nostra gente occorre tener presente che ogni linguaggio umano è limitato e talvolta le nostre esperienze rendono equivoco il linguaggio con cui comunichiamo la nostra fede. Nella mediazione della fede occorre tenere presente tutto questo. Il Padre celeste (cioè il Dio comunicato da Gesù e non costruito attraverso le nostre immagini) è rivoluzionario rispetto a ogni tipo di paternità terrena: la sua predicazione è critica profetica per ogni modello di padre in questo mondo e deve diventare l’occasione per recuperare la stessa paternità umana nei suoi contenuti profondi: vicinanza, tenerezza, fiducia, sicurezza, consolazione, protezione, promozione delle creatività, educazione alla libertà. La crisi del padre è crisi di autorità, non tanto nel senso giuridico, ma in quello valoriale di autorevolezza: l’autorevolezza del padre rende sicuro il cammino libero della crescita e orienta ad un futuro di costruzione responsabile della propria felicità, affianca senza sostituire, protegge senza mortificare il potenziale.
 
Il Padre di Gesù
Ecco dunque quanto mi ero preparato a dire. In estrema sintesi: ogni paternità è vera se è trasparenza e simbolo dell’unica paternità di Dio, i cui tratti originali del volto si possono cogliere nelle parabole del Regno. Perciò ci ha detto Gesù: “uno solo è il Padre e nessuno si faccia chiamare
padre sulla terra”; la contemplazione e l’accoglienza nella fede cristiana di Dio come Padre impegna a una vita autenticamente umana, fondata sull’amore misericordioso che si rende responsabile della vita dei fratelli, delle sofferenze, dei bisogni materiali e spirituali della gente; la fede richiesta dal Padre supera la pratica legalistica dell’obbedienza ai precetti, per cui l’andare a messa di domenica è ben più che soddisfare una legge: è la volontà di lasciarsi coinvolgere dall’amore del Padre che rigenera e con la sua grazia rende tutti capaci del gesto del dono di sé per l’altro, ripetendo il gesto eucaristico di Gesù, che si fa Pane spezzato e sangue sparso per amore; attingendo al cuore del Padre, Gesù mostra e rivela nel suo comportamento una vicinanza affettuosa soprattutto verso i peccatori, gli sventurati, verso tutti quanti si trovassero in condizioni di miseria fisica (le malattie), spirituale (il peccato), economica (la povertà). L’amore preferenziale di Gesù per i poveri, per i diseredati e i disprezzati della terra “simbolizza realmente” la verità di Dio, il Padre “suo”. Ogni uomo è fratello, perché Dio è Padre. Questa è allora l’ultima verifica: chi è adoratore del Padre diventa generosamente custode degli uomini, sentiti suoi fratelli.
 
Resta la delusione
Quando giunsi allo studio della Rai, non vidi né Fox, né il filosofo ateo. Il contenitore era cambiato. C’era solo Morgan. Ma mi dissero che avrei avuto la possibilità di offrire le mie riflessioni sul Padre-paternità e umanità disorientata nel corpo centrale della trasmissione attraverso quattro domande che una presentatrice (la Marangoni) avrebbe dovuto rivolgermi, in uno spazio temporale di venti minuti. Mi sembrò una buona proposta e rimasi. Di fatto, le cose andarono diversamente. Sgarbi era “inviperito” perché su un giornale nazionale veniva riportato in prima pagina che avrebbe a Salemi obbedito agli ordini di un mafioso. Credo che questa sia stata la molla scatenante che lo ha portato a parlare solo di sé e a difendersi in soliloqui che non finivano mai. Solo verso la fine si cominciò a trattare il tema. Io venni chiamato (dopo che ero stato maldestramente presentato all’inizio della trasmissione e tenuto come un palo a dir niente per dieci minuti) verso le 23,05. La Marangoni non mi pose nessuna domanda (in realtà non parlò affatto, pur dovendo essere la presentatrice principale) e io venni invitato a tenere un pensiero predicatorio di 4-5 minuti. Così accadde, che ho parlato in diretta della paternità di Dio in Gesù in un tempo in cui i telepredicatori non è che siano tanto amati. Oltre la delusione, resta un po’ di fornicazione interiore per l’esperienza. Historia magistra vitae.