L’esperienza del religioso costituisce un aspetto importante della vita sociale e credente di una città. Prescindere da questo aspetto significa negare la storia e la cultura di un popolo. Si può dire che esso sia “l’anima credente” che purifica e sostiene la vita relazionale di una cittadinanza. Questa dimensione religiosa conosce vari modi di traduzione civile, sulla base di una gestualità che affonda le sue radici nella forte esperienza di una devozione, la quale nel tempo è diventata “culturale”, ovvero forma di vita che riflette l’agire e il pensare di tante persone. Dentro quest’anima credente vi è, per i netini, l’indelebile figura di S. Corrado, il cui accompagnamento, sempre vivido, ha nel mutamento delle epoche alimentato e accresciuto la fede dei suoi devoti. A lui si dedicano momenti spirituali forti, affinché l’auspicio della sua mediazione possa generare benedizione e perdono da parte di Dio su ciascuno e sull’intera città. Si crede fermamente nella forza della sua santità e soprattutto si guarda a lui per imparare ad essere dei “buoni cristiani” che sappiano praticare gli elementi essenziali del vangelo nella ferialità della vita.
La processione, che annualmente è dedicata a lui nelle forme ormai consolidate di quattro appuntamenti, si inserisce in una modalità di manifestazione molteplice. Non bisogna dimenticare che il cuore della festa religiosa è la celebrazione dell’Eucaristia attorno al Vescovo, quale momento di crescita per una comunione che travalica i confini della città. S. Corrado è patrono di Noto; ma la sua devozione si estende alle città viciniori, come Avola, Pachino e Rosolini, e progressivamente si sta tentando di far capire che la figura di S. Corrado interpella tutta la Diocesi, non soltanto perché è il compatrono, ma anche perché la sua vicenda di conversione può suggerire modi concreti di vita evangelica che mirino unicamente alla comunione. Forse è qui che la devozione si piega alla tradizione. La festa di un santo, come appunto S. Corrado, non può essere lasciata dentro gli schemi di una devozione. Occorre che le luci di santità della sua persona divengano raggi di comunione che illuminano i credenti di Noto a sentire la grandezza di essere in comunione con i credenti di altre città che fanno parte dell’unica comunità diocesana.
Accanto a questo momento centrale di vita cristiana vi è quello più personale ed intimo: la fede del netino. Anche quest’aspetto non può essere dimenticato. Esso costituisce un altro pilone importante della festa dedicata a S. Corrado. Ed anche qui la devozione cede il passo alla tradizione. Se la facies culturale di una festa è certamente la devozione, non si può, considerando il cammino di fede che muta e cresce, fermarsi ad una realtà che rischia di cristallizzarsi dentro forme che hanno sì fondamento storico, ma non riescono ad esprimere il corso mutevole di un’altra storia, quella concreta e tangibile, della vita quotidiana della gente. Quest’ultima, si deve ammettere, ha ormai cambiato il proprio modo di vivere: ha imparato a sentire voci differenti dentro una società globalizzata; ha cominciato ad esprimere, con forte senso critico, quel religioso che non può restare stantio dietro la creatività di una fede che spinge verso prospettive nuove e inaspettate. Se per devozione si intende una forma culturale di religiosità, e tutte le forme culturali sono soggette a mutevolezza, la tradizione rivela invece ciò che è inalterabile: la fede del netino. Perché soltanto la fede può essere “consegnabile” trapassando tutte quelle forme di ethos che se da una parte rappresentano l’anima credente di una cittadinanza, dall’altra subiscono l’equo e dovuto adattamento dentro lo scorrimento delle vicende umane. A questa fede, profonda e insindacabile, che è la fede del netino – quella fede che ha mantenuto nei secoli la devozione a S. Corrado – che bisogna guardare con rispetto, attenzione e fiducia. È questa la tradizione da custodire, lasciando che le forme di devozione si asserviscano alla crescita della vera fede.
La distinzione che esiste tra devozione e tradizione, la quale peraltro consente di contestualizzare con intelligente oculatezza la festa del nostro patrono, è necessaria quanto doverosa. Un chiarimento che non rileva discordanza. I due aspetti sono, da un punto di vista storico e teologico, equivalenti e referenziali. La devozione non può sussistere senza la tradizione: il suo destino sarebbe la superstizione; nondimeno la tradizione senza devozione altro sarebbe che un modo astratto di vivere il religioso. La devozione pertanto aiuta la tradizione ad essere storica, accogliendo quelle mediazioni spirituali, civili e religiose che le epoche in qualche modo determinano. La tradizione però è alquanto necessaria alla pratica devozionale. Essa infatti ha il compito di fissare ciò che è il basamento di una spiritualità che paradossalmente accomuna e favorisce la condivisione di forme culturali differenti e talvolta contrastanti. Si pensi, per esempio, al modo come si vive la fede nel continente europeo e come essa si esprime nelle variegate forme culturali del continente africano o asiatico. La tradizione è certamente la forza trainante delle devozioni religiose, ma queste ultime non possono identificarsi con quella che rappresenta il credo religioso di un popolo. È nella tradizione infatti che la fede deve cercare il proprio senso di espressione; con la devozione invece la medesima fede rivela quella esuberanza che genera adattamenti culturali e forme di religiosità ispirate dal succedersi delle epoche.