Fondamenti teologici della cooperazione interecclesiale

La missione non è, come spesso si crede, un aspetto della pastorale, un’attività tra le tante da fare, ma costituisce la stessa identità della Chiesa. L’identità della Chiesa, allora, oltre ad essere mistero di  comunione, è anche missione, cioè testimonianza al mondo dell’amore di Dio, manifestato in Cristo Gesù morto e risorto presente in mezzo a noi con il suo Spirito. L’attività missionaria, che si realizza con la Parola della predicazione e con la celebrazione dei sacramenti, è l’attualizzazione di questo piano di salvezza per tutti gli uomini in attesa della seconda venuta di Cristo. Dall’Eucaristia scaturisce la missione. Dopo che si è fatta, infatti, l’esperienza del sacrificio di Cristo per la salvezza del mondo, non si può non cooperare a quest’opera di salvezza  nella storia, col dono della propria vita e con l’annuncio, affinché anche altri siano in comunione con i credenti. L’Eucaristia, perciò, oltre ad essere l’anima della Chiesa e della comunione, è fonte della missione al mondo. Nel Nuovo Testamento, con il termine “Chiesa” si indica l’unico corpo di Cristo, cioè l’insieme di tutti i credenti, o la singola comunità di cristiani che è presente in un determinato luogo. La Chiesa particolare è la concretizzazione nel tempo e nello spazio della Chiesa universale e la comunione delle Chiese particolari dà vita alla Chiesa universale. Il concilio, infatti, così anche definisce la diocesi. La Chiesa universale, allora, è presente nelle Chiese particolari, è costituita da esse ed è fondamentale, nonché vitale, che ogni Chiesa particolare si apra alla Chiesa universale e si senta ad essa legata.
 
Un tempo, quando l’occidente era in buona parte cristianizzato, la Chiesa  mirava ad evangelizzare i popoli delle nuove terre conquistate, ma l’attività missionaria era considerata compito del papa che mandava istituzioni e ordini religiosi in missione ad gentes. Anche all’inizio del nostro secolo i vescovi erano responsabili soltanto delle proprie diocesi, mentre il papa, per mezzo delle Pontificie Opere Missionarie, curava le missioni. Nel 1957 Pio XII nell’enciclica Fidei donum introdusse l’idea della responsabilità collegiale dei vescovi. Di conseguenza primi responsabili della missione ad gentes, sono tutti i vescovi in quanto successori degli apostoli: non più soltanto il Santo Padre. Il Concilio, in particolare, sottolinea che è compito del vescovo far crescere lo spirito missionario nella sua diocesi, istruire i fedeli a sentirsi parte di una Chiesa in missione, far in modo che abbiano un autentico senso cattolico e uno spirito universale, educandoli all’amore specialmente delle membra povere e perseguitate del Corpo mistico di Cristo; invitare i malati e i sofferenti ad offrire a Dio preghiere e penitenze per l’evangelizzazione del mondo; incoraggiare le vocazioni dei giovani e dei chierici per gli istituti missionari. Inoltre vuole che i vescovi, collaborando fra di loro e col successore di Pietro, promuovano ogni attività comune a tutta la Chiesa affinché la fede cresca in tutti gli uomini. Nella nuova prospettiva ecclesiologica del Vaticano II ogni Chiesa particolare è missionaria e ogni battezzato in quanto inserito in Cristo e nella Chiesa, è inviato. Non più solo i sacerdoti e i relgiosi-missionari, ma anche i laici. Questi non partono, però, a titolo personale, ma come rappresentanti di una Chiesa particolare, la quale impegna tutta se stessa nell’invio.

La cooperazione tra le Chiese al fine dell’aiuto reciproco e dell’evangelizzazione prende il nome di “cooperazione missionaria”. Già nel Nuovo Testamento si trovano forme di “cooperazione missionaria”. Paolo stesso dice che il suo assillo quotidiano è la preoccupazione per tutte le Chiese e sprona i Corinzi ad organizzare una colletta e quindi ad essere generosi nei confronti di quelle che si trovano in ristrettezze economiche. C’è anche scambio di persone: apostoli, profeti e diaconi.  Il capitolo undicesimo degli Atti ci narra della comunità di Gerusalemme che manda Barnaba ad Antiochia e questi, a sua volta, chiede alla Chiesa di Cilicia Saulo per condurlo ad Antiochia. Nello stesso capitolo si racconta anche di un gruppo di profeti che da Antiochia si recano a Gerusalemme e di una colletta in favore dei fratelli della Giudea. Sull’esempio delle prime comunità cristiane le Chiese locali, oggi, sono chiamate a collaborare, a scambiarsi beni e persone. Soprattutto fu Giovanni Paolo II a esortare la Chiesa alla cooperazione specialmente alla luce dei moderni mezzi di comunicazione che fanno crollare le distanze. Le Chiese ricche dell’occidente devono, così, aiutare le Chiese povere del terzo mondo, le Chiese antiche comunicare l’esperienza a quelle giovani e queste comunicare a quelle antiche, che spesso si trovano in stato di regresso, la freschezza e l’entusiasmo per avere scoperto il Vangelo. C’è “cooperazione missionaria”, infatti, solo quando ci si mette nell’orizzonte dello scambio. Scambiandosi energie spirituali e materiali,  le Chiese possono impegnarsi meglio nell’unica e comune missione di annunziare il Cristo. Il fine ultimo della “cooperazione missionaria”, infatti, è sempre l’evangelizzazione. Il termine “missione” assume, così, un significato più ampio. Non più solo missio ad gentes, un andare alle genti, presso i popoli che ancora non conoscono Cristo, ma anche cooperare con una Chiesa particolare aiutandola a diffondere il Vangelo, senza fermarsi alla cooperazione perché l’orizzonte dello scambio è sempre in funzione della missione al mondo.

Fonte: “Il gemellaggio tra la Chiesa di Noto e la Chiesa di Butembo-Beni. Esempio di cooperazione interecclesiale”. Tesi di Baccalaureato di Don Guglielmo Padua.